Lo studio della coscienza continua a essere un mistero per la scienza contemporanea. Tuttavia, sta diventando sempre più un fattore chiave per il recupero dei pazienti che hanno subito un danno cerebrale acquisito. Molti processi terapeutici di riabilitazione neuropsicologica falliscono per la difficoltà ad ottenere la collaborazione del paziente, il quale non si attiene alle indicazioni prescritte, rifiuta di partecipare alle sessioni di riabilitazione di gruppo o non si presenta alle visite programmate. Ciò non avviene per mancanza di volontà o di comprensione, ma fa parte di un’alterazione neuropsicologica che porta il paziente a non percepire il proprio deficit e ad agire come se andasse tutto bene.
Che cos’è la coscienza?
La coscienza è un costrutto estremamente complesso. Se oggi non disponiamo di una definizione univoca di questa funzione mentale, ciò è probabilmente dovuto alla sua straordinaria ubiquità nel cervello e alla sua natura polifaccettata. Il filosofo britannico John Locke (1632-1704) definì la coscienza come la “percezione di ciò che accade nella propria mente”. Definizioni più moderne sostengono che la coscienza si caratterizza per essere “uno stato mentale privato, personale, soggettivo e qualitativo che integra in modo unitario, coerente e continuo molteplici esperienze personali (qualia)”.
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Differenze tra “stare cosciente” e “essere consapevole”
Una distinzione utile è quella si fa tra “stare cosciente” e “essere consapevole”. Stare cosciente sarebbe equivalente a essere svegli e vigili, ricettivi agli stimoli dell’ambiente, in modo tale che la coscienza, da questo punto di vista, è ciò che si possiede quando si è svegli e ciò che si perde quando si dorme profondamente o ci si trova sotto anestesia. Invece, essere consapevole si riferisce più che altro alla capacità dell’essere umano di conoscere il proprio pensiero e di comprendere oggettivamente il mondo e se stessi, mantenendo al tempo stesso un senso di soggettività.
Queste proprietà della coscienza avrebbero una base neuroanatomica identificabile nel cervello, sebbene la conoscenza sulla loro localizzazione neuronale sia ancora incerta. Per essere svegli abbiamo bisogno di attivazione e vigilanza, funzioni di base che dipenderebbero da strutture nel tronco encefalico, dal sistema attivatore reticolare ascendente (S.A.R.A.) e da circuiti noradrenergici fronto-parietali, lateralizzati nell’emisfero destro quando si parla specificamente di arousal. La capacità di concentrare il focus dell’attenzione su una percezione specifica dipenderebbe dalle aree parietali posteriori e da alcuni nuclei talamici come il pulvinar. La generazione di esperienze coscienti è stata collegata a circuiti cortico-talamici riverberanti, in modo consistente a bande di scariche neuronali sincronizzate a 40 hertz. Infine, la autocoscienza, ossia il substrato della riflessione su se stessi, dell’identità e della teoria della mente, sarebbe situata nella corteccia prefrontale.
Pertanto, come vediamo, la coscienza non è un costrutto unitario. Anzi, come già si distingueva in filosofia, esistono diversi tipi di coscienza con basi neuroanatomiche diverse, che contribuiscono a generare le esperienze di coscienza e autocoscienza che viviamo nella nostra vita quotidiana.
Mancanza di consapevolezza dei deficit: anosognosia
Una delle cose che più sorprende il neofita della neuropsicologia è la mancanza di consapevolezza dei deficit nei pazienti con danno cerebrale acquisito. Pazienti con afasia di Wernicke che credono di parlare in modo coerente e di essere compresi, pazienti con eminegligenza che sbattono contro le porte o non mangiano il cibo che si trova su un lato del piatto controlaterale, pazienti con gravi problemi di autoregolazione emotiva e insight dopo un danno frontale che negano qualsiasi tipo di problema, sono casi comuni nelle consulenze di neuropsicologia. Tutti questi rappresentano una sfida per il clinico sia nella valutazione che nella pianificazione del trattamento.
Che cos’è l’anosognosia?
Il termine anosognosia fu introdotto per la prima volta dal neurologo francese Charles Babinski nel 1914 quando riferì un caso di emiplegia in cui il paziente non era consapevole del proprio deficit. Successivamente, il termine “anosognosia” si è diffuso e ampliato per riferirsi, in generale, all’assenza di consapevolezza dei deficit, siano essi fisici, cognitivi, emotivi, relazionali o di personalità.
L’anosognosia o mancanza di consapevolezza dei deficit è un’alterazione frequentemente osservata nei pazienti che hanno subito un danno cerebrale, sia esso traumatico, da ictus, neoplastico o infettivo. La sua prevalenza, secondo vari studi, si attesta tra il 33% e il 52%. Inoltre, quasi la metà dei pazienti presenta ancora questa alterazione un anno dopo aver subito il danno cerebrale acquisito. La sua presenza costituisce un fattore di cattiva prognosi, in quanto spesso si traduce in mancanza di motivazione, scarsa aderenza al trattamento, bassa partecipazione alle attività programmate e disallineamenti tra le aspettative di capacità che il paziente ha di sé e la realtà.
Approccio terapeutico alla mancanza di consapevolezza dei deficit nel danno cerebrale acquisito
Al momento di pianificare un programma di intervento in neuropsicologia si raccomanda di seguire una serie di principi che ci aiuteranno a progettare la migliore strategia possibile, adattata alle esigenze specifiche del paziente. A tal fine, dobbiamo partire da modelli teorici di riferimento che ci permettano di interpretare i risultati ottenuti nei test, adottare una prospettiva interdisciplinare e multipla e concentrarci più sulla disabilità che sui deficit. Ciò implica, normalmente, un’analisi approfondita delle conseguenze funzionali che il danno cerebrale acquisito ha avuto sulla vita del paziente e cercare di ottenere la massima adattabilità socio-lavorativa possibile.
La mancanza di consapevolezza dei deficit può causare un notevole impatto negativo nella vita quotidiana delle persone affette da un disturbo neuropsicologico. Inoltre, può ostacolare la adesione alle sessioni di riabilitazione. Per questo motivo, l’approccio terapeutico alla mancanza di consapevolezza dei deficit nel contesto del danno cerebrale acquisito, se presente, diventa il primo obiettivo terapeutico che il neuropsicologo deve considerare nella pianificazione del trattamento.
La maggior parte dei programmi di intervento sviluppati per migliorare la consapevolezza dei deficit ha obiettivi comuni incentrati su aumentare la conoscenza della lesione da parte del paziente, lavorare sull’accettazione delle proprie limitazioni e ridurre il divario tra le sue aspettative di funzionamento e le sue reali prestazioni. Inoltre, stabilire una buona alleanza terapeutica è fondamentale in questo processo, soprattutto perché aumentando la consapevolezza dei deficit il paziente può iniziare a manifestare sintomi depressivi, ansia o addirittura negazione.
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Strategie di intervento per la riabilitazione della consapevolezza dei deficit nel danno cerebrale acquisito
In una revisione sistematica recente, Villalobos e i suoi collaboratori (2020) espongono le strategie di intervento più comunemente impiegate nella riabilitazione della consapevolezza dei deficit nel danno cerebrale acquisito: la psicoeducazione, il feedback, la confrontazione, la terapia comportamentale e la psicoterapia.
Psicoeducazione
Attraverso la psicoeducazione si offre al paziente informazioni adattate alla sua capacità di comprensione sulla natura del suo disturbo, sui deficit associati e sulle ripercussioni funzionali che esso comporta, con l’obiettivo di aumentare la sua conoscenza del problema.
Feedback
L’obiettivo del feedback è informare il paziente sulle sue prestazioni in un compito specifico. Ciò gli permetterà di capire se sta raggiungendo l’obiettivo o quanto ne è distante, in modo da regolare il suo rendimento o cercare strategie adeguate per ottenerlo.
Confrontazione
La confrontazione viene utilizzata per misurare il divario tra le aspettative del paziente e le sue prestazioni reali in un compito. A tal fine, vengono progettati compiti strutturati che permettano l’autocontrollo e l’autovalutazione, partendo sempre dalle capacità attuali del paziente in quel momento. Il paziente deve prevedere le proprie prestazioni nel compito prima di svolgerlo e successivamente analizzare e confrontare il risultato ottenuto. L’esperimento esperienziale di solito ha un forte impatto sulla consapevolezza della nuova realtà del paziente. Pertanto, è necessario procedere con cautela ed esaminare attentamente pro e contro di questo tipo di intervento, oltre a scegliere il momento più adeguato all’interno del processo di riabilitazione del danno cerebrale acquisito.
Terapia comportamentale
Proprio quando sospettiamo che la confrontazione possa generare ansia o risultare psicologicamente dannosa per il paziente, è opportuno iniziare con l’addestramento a strategie compensative e con l’acquisizione di abitudini procedurali che consentano al paziente di acquisire funzionalità.
Psicoterapia
La psicoterapia può essere utile in diverse fasi del recupero dal danno cerebrale acquisito, soprattutto quando è presente la mancanza di consapevolezza dei deficit. Nella comunità scientifica la controversia riguarda l’eziologia dell’anosognosia, che potrebbe avere un’origine neurologica, ma anche psicologica, tramite meccanismi di negazione. In ogni caso, la psicoterapia può essere utile sia per aiutare il paziente a gestire le alterazioni emotive che questi disturbi comportano, sia per ristabilire un nuovo senso nella sua vita, oltre a delineare nuovi obiettivi, adeguati alla sua nuova realtà.
Conclusioni sulla consapevolezza dei deficit come fattore chiave nel recupero dal danno cerebrale acquisito
L’approccio terapeutico alla mancanza di consapevolezza dei deficit sta suscitando un interesse crescente sia tra i ricercatori che tra i neuropsicologi. Come abbiamo visto, riabilitare un’alterazione cognitiva, emotiva o comportamentale dopo un danno cerebrale acquisito può risultare molto più difficile se il paziente non è consapevole del proprio deficit. Numerose ricerche hanno evidenziato la capacità predittiva della mancanza di consapevolezza dei deficit per il reinserimento dei pazienti colpiti da danno cerebrale acquisito. Infatti, più bassa è la consapevolezza del deficit, peggiore è il reinserimento.
Per questo motivo, diventa sempre più necessario sviluppare nuovi modelli teorici, strumenti di misurazione e programmi di riabilitazione che ci permettano di continuare a progredire per offrire ai pazienti le migliori strategie terapeutiche adattate al loro disturbo. È evidente che, in qualche modo, questi aspetti vengono già affrontati con i pazienti, ma è necessario farlo in maniera più sistematica e strutturata. Solo così potremo migliorare la conoscenza sui processi di monitoraggio della coscienza e contribuire a sviluppare una neuropsicologia basata sull’evidenza.
Riferimenti sul danno cerebrale acquisito e sulla consapevolezza dei deficit
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Locke, J. (1690/1980). Ensayo sobre il entendimiento umano. Editora Nacional, Madrid.
Flashman, L. A. & McAllister, T.W. (2002). Lack of awareness and its imact in traumatic brain injury. Neurorrehabilitation, 17(4), 185-96.
Graziano, M. (2015). Consciousness and the social brain. New York: Oxford University Press.
González, B., Paúl, N., Blázquez, J. L. & Ríos, M. (2006). Fattori correlati alla mancanza di consapevolezza dei deficit nel danno cerebrale. Acción Psicológica, 4(3), 87-99.
Muñoz-Céspedes, J.M. & Tirapu-Ustárroz, J. (2001). Riabilitazione neuropsicologica. Madrid: Síntesis.
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Tirapu-Ustárroz, J. (2008). A che serve il cervello? Bilbao: Desclée de Brouwer.
Villalobos, D., Bilbao, A., López-Muñoz, F. & Pacios, J. (2020). Consapevolezza dei deficit come processo chiave nella riabilitazione dei pazienti con danno cerebrale acquisito: revisione sistematica. Revista de Neurología, 70(1), 1-11.
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